Che cosa ci spinge a comprare un prodotto o un brand rispetto a un altro? Quali processi, consci e inconsci, influiscono sulle nostre scelte? In che modo la psicologia è connessa alla bioingegneria? Risponde Vincenzo Russo, professore di Psicologia dei Consumi e Neuromarketing.
Dietro i comportamenti dei consumatori c’è una disciplina recente che attraverso studi, ricerche e analisi, sta dando risultati sorprendenti: il neuromarketing. Ne abbiamo parlato con Vincenzo Russo, professore di Psicologia dei Consumi e Neuromarketing, Ph.D, coordinatore del Centro di Ricerca di Neuromarketing Behavior and Brain Lab IULM e direttore scientifico del Master in Food and Wine Communication IULM.
Cos’è il neuromarketing?
Il neuromarketing è una metodologia di analisi e di efficacia della comunicazione e del marketing in generale, che si serve di tecniche neuroscientifiche per analizzare i comportamenti dei consumatori. Può servirsi di tool, cioè strumenti che vanno a misurare direttamente gli elementi che sono importanti per la vendita, come per esempio l’emozione, la memorizzazione o i processi cognitivi. Generalmente si fa attraverso un’intervista o un questionario con alcune domande da rivolgere a un gruppo per capire se c’è un’emozione o meno rispetto a un prodotto. Abbiamo visto che quando le persone rispondono alle domande, non parlano dell’emozione che stanno provando veramente, ma raccontano quello che pensano essere l’emozione.
Attraverso il neuromarketing, noi invece andiamo a misurare quello che veramente succede nel cervello di una persona, facendo una mappatura molto più accurata della variazione della condizione emotiva determinata dalle stimolazioni di marketing. Attraverso 52 tecniche che studiano gli indicatori legati all’intensità emotiva di un consumatore – come la dilatazione delle pupille, il battito cardiaco, la sudorazione delle mani, la respirazione, l’eye tracking – possiamo misurare cosa sta guardando e cosa preferisce una persona. Dobbiamo sempre tener presente che il neuromarketing fa riferimento moltissimo alla psicologia cognitiva e sociale, e utilizza strumenti precisi e sempre più evoluti tecnologicamente, che derivano dalla bioingegneria. Possiamo lavorare sia in “field”, cioè direttamente sul campo, sia in laboratorio.
Quali sono i settori di applicazione?
Sono i più svariati, non solo nella pubblicità, ma anche nella politica o nella comunicazione: sicuramente i maggiori investimenti nel neuromarketing sono quelli nel mondo del cibo e del vino. Noi analizziamo lo spot pubblicitario partendo già dallo storyboard – lo spot disegnato – dando indicazioni all’azienda che decide di investire subito in un’area rispetto a un’altra, mettendo a confronto gli animatics (sequenza di storyboard con l’aggiunta di una traccia sonora temporanea, ndr) con l’effetto della pubblicità una volta uscita. Il motivo per cui sono stati adottati gli animatics è dovuto al fatto che essi consentono, rispetto a uno spot reale, di contenere i costi di produzione e quelli dovuti a modifiche di scene.
Quali sono le maggiori innovazioni che ha riscontrato negli anni attraverso il neuromarketing?
Sicuramente quella più importante è poter studiare l’efficacia dello stimolo pubblicitario, del packaging e dell’ambiente e quindi il grado di impatto emotivo e di engagement prima che venga utilizzato un prodotto. Anche gli strumenti del neuromarketing sono innovativi perché oggi sono talmente potenti che intercettano anche piccolissimi stati di attivazione emozionale, per esempio gli stimoli che attivano inconsciamente la nostra attività cerebrale.
Lei coordina il Centro di Ricerca di Neuromarketing “Behavior and Brain Lab IULM”. Quali sono i progetti più importanti che state portando avanti?
Uno dei casi più interessanti è il caso Danacol di qualche anno fa. L’azienda ha voluto far analizzare una pubblicità con l’obiettivo finale di migliorare il brand, che per un errore di comunicazione aveva portato a meno 25% di vendite. Quando sono venuti da noi, abbiamo analizzato due spot animatics e abbiamo proposto loro una nuova pubblicità. Con questa, Danacol è passata nelle vendite da -25% a -5% in sei mesi. Abbiamo poi analizzato le dinamiche del prodotto: vedendo solo lo spot – senza quindi comunicazione digitale o altri aspetti – la vendita sono passate a +3%.
Il cliente continuava a chiedersi: «Perché lo spot andato in onda l’anno precedente ha fatto -25%? Eppure era stato testato e analizzato con tecniche classiche… Andava bene a tutti gli utenti intervistati». Il nostro lavoro è stato diverso: abbiamo preso lo spot, trasformato in animatics e lo abbiamo testato con un campione di soggetti. La cosa interessante era che il dato “neuro” era tutto negativo e confermava di non utilizzarlo. Dopo questo tipo di analisi, però, facciamo sempre interviste: proprio attraverso queste abbiamo capito che lo spot in realtà piaceva. Ciò significa che paradossalmente il dichiarato andava in una direzione, mentre il vissuto andava da un’altra parte. Chi esprime un giudizio fa una scelta in ciò che si ricorda o meno, e quindi il metodo tradizionale è soggettivo e non univoco. Il neuromarketing, invece, fa un’analisi più completa, frame per frame, secondo dati oggettivi e congrui, che analizzano sia la parte conscia che inconscia. La storia ha dato ragione ai dati del neuromarketing. L’effetto dello spot sulla base di quanto rilevato dalle indagini tradizionali è risultato critico. Mentre con noi ha avuto un miglioramento del risultato.
Come funziona quindi lo strumento neuromarketing?
Il campione si definisce sempre con il committente, che spiega quali soggetti intende coinvolgere, e noi ci avvaliamo di una società di recruiting che riunisce le persone da intervistare. Una volta selezionate, vengono in laboratorio, mettiamo loro l’attrezzatura e facciamo vedere uno spot che viene inserito all’interno di un protocollo. Le persone che fanno parte del campione non vedono solo una pubblicità, ma anche altri spot che sono dei “distrattori” e alcuni frame dello spot da analizzare. Attraverso vari strumenti e indicatori, studiamo la loro reazione valutando variabili come l’età, il genere e l’etnia.
Avete molte partnership e collaborazioni con aziende, organizzazioni, istituzioni e centri di ricerca?
In Italia esistono due grandi laboratori universitari relativi al neuromarketing: noi della IULM e La Sapienza di Roma. Noi siamo più indirizzati all’ambito commerciale e aziendale: collaboriamo con numerosi centri di ricerca, tra cui cito il CNR per un progetto di biosicurezza. Una delle nostre ricerche più famose è quella per Amorim Cork: attraverso l’emozione alla vista di un tappo a vite o in sughero sappiamo cosa preferiscono i consumatori. Con il Consorzio di Tutela Vini DOC Sicilia, invece, stiamo studiando lo spot migliore, facendo un’analisi dei volti delle comparse e dei protagonisti. Lavoriamo poi con le ONG, per esempio Unicef, con la quale facciamo diversi progetti. Uno dei più importanti è stato quello legato alle donazioni attraverso i lasciti testamentari. Non si parlava di donare azalee, ma di un tema complesso come la morte, e generalmente non è così facile lavorare su temi così impattanti. Abbiamo testato le emozioni derivate dalla visione dello spot e, grazie allo studio preliminare attraverso il neuromarketing, abbiamo capito cosa poteva funzionare e cosa meno. Già nel primo mese di uscita dello spot due-tre anni fa, Unicef ha avuto una crescita esponenziale di richieste di informazioni sul tema.
Recentemente lei è stato nominato tra i 250 innovatori al mondo nel campo delle ricerche di mercato secondo Esomar. Quanto sono importanti – e cosa possono portare – i premi e riconoscimenti per il mondo della ricerca?
È molto più efficace far vedere effettivamente cosa facciamo, portare case history nelle aziende o nei master che organizziamo. I premi sicuramente servono, ma non sono sufficienti per la divulgazione commerciale. Il premio vinto è comunque significativo perché sono l’unico accademico sui 5 italiani vincitori: ma è ancora presto per valutare l’impatto…